Eritrea: sanzioni Onu, arma letale
Marilena Dolce
30/07/13
2
1691
Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU con la risoluzione 1907 del 2009 ha stabilito pesanti sanzioni per l’Eritrea, accusata di destabilizzare la regione, aiutando e armando Al Shaabab, gruppo fondamentalista somalo.
Il Gruppo di Monitoraggio Eritrea Etiopia (SEMG) incaricato di verificare la situazione ed eventuali cambiamenti ha scritto un lungo report ritenuto, però, dalle delegazioni di diversi Paesi, non sufficientemente attendibile e circostanziato per l’inattendibilità delle prove fornite, per giustificare le sanzioni.
Ci si chiede: dopo quattro anni senza prove tali sanzioni che penalizzano un Paese che ha saputo evitare qualsiasi forma di estremismo religioso, non andrebbero abolite?
Il punto di vista eritreo sulla situazione della Somalia, che debba essere uno stato unito, libero, indipendente, non è la premessa per sostenere alcun estremismo. Del resto i rapporti dell’Eritrea con i paesi confinanti, Sud Sudan, Sudan, Somalia stessa, sono di buon vicinato.
Un ulteriore grave accusa che il rapporto Onu rivolge all’Eritrea è la violazione dell’embargo sulle armi, ipotesi basata sull’esistenza, nei pressi di Asmara, di un “Garage Governativo” che coprirebbe con attrezzature e macchinari civili, la presenza di materiale bellico. In sostanza un dual use: acquisti per edilizia e agricoltura utilizzati per armamenti “fai da te”.
Il settimanale italiano l’Espresso, nel reportage dedicato all’Eritrea scrive che diverse aziende italiane esportano materiale dual use, indicando per tale “connection” una società umbra, le Officine Piccini di Perugia.
Eritrea Live ha intervistato a Perugia l’ingegner Luciano Marcaccioli, responsabile costruzioni Officine Piccini che spiega: «il nostro gruppo lavora all’estero, in moltissimi Paesi, costruisce ed esporta materiale per l’edilizia; dagli anni Novanta, dopo l’indipendenza (1993) siamo presenti anche in Eritrea, dove abbiamo partecipato alla ricostruzione del Paese, fornendo assistenza per la costruzione di ponti, strade, prefabbricati, formando tecnici, esportando materiale.
Ancora oggi lavoriamo con l’Eritrea dove abbiamo diversi cantieri». Alla domanda su un possibile dual use, sorridendo, risponde: «guardi, noi forniamo impianti di frantumazione, centrali di betonaggio, carri ponte, impossibile smembrarli e assemblarli diversamente. Nessuna componente dei nostri macchinari può essere riciclata. Inoltre le nostre spedizioni sono trasparenti: dogane, container, navi, non si potrebbe inviare niente di diverso da quanto dichiarato».
Allora perché e con quali prove il rapporto accusa l’Eritrea?
In assenza di palesi violazioni sull’embargo il rapporto indica una strada nascosta,«la nebbia del dual use» come scrive l’Espresso, l’utilizzo militare di attrezzature civili.
Quest’utilizzo illecito autorizzerebbe il Consiglio di Sicurezza, prorogando le sanzioni, a chiedere all’Eritrea informazioni puntuali su acquisti di macchinari e attrezzature civili.
Insomma a bloccare il Paese.
Ma il Semg ha fornito prove di questi acquisti illeciti, o di parti di ricambio sospette?
Per il momento no.
Russia, Cina, Norvegia, Italia non hanno approvato il rapporto, perché le conclusioni sono inaccettabili, senza fondamento.
L’Ambasciatore italiano all’Onu, Cesare Maria Ragaglini, ha dichiarato che l’Italia non vende armi all’Eritrea e neppure componenti che possano avere utilizzo militare.
L’Eritrea non ha violato l’embargo sulle armi.
Interesse internazionale dev’essere però quello di risolvere la sua condizione di «non pace non guerra» durata troppo a lungo.
Per fare ciò non basta che l’Etiopia, alleata storica delle nazioni più forti, baluardo americano nel Corno d’Africa, chieda d’incontrare ad Asmara il Presidente Isaias Afwerki, sedersi a un tavolo e trattare. Se l’Etiopia continua a occupare Badme, un territorio definito dall’Accordo di Algeri (2002) eritreo, mancano le premesse per tale incontro.
Appena l’Etiopia libererà i territori occupati, si potrà dialogare.
Questo è il punto di vista eritreo.
Ma intanto come si vive nell’Eritrea delle sanzioni?
L’Eritrea, paese dalla recentissima indipendenza, 24 maggio 1993, cinquantatreesimo stato africano, ha conosciuto, dopo il colonialismo, un brevissimo periodo di pace fino al 1998, quando ha dovuto difendersi dall’attacco dell’Etiopia, non rassegnata a perdere risorse e porti eritrei.
L’attacco, la necessità di difendersi, hanno interrotto la ripresa economica, fermando lo sviluppo del Paese: avrebbe potuto essere diversamente?
Se prima il governo di Afwerki pensava di poter utilizzare imprese straniere per accelerare la ricostruzione delle infrastrutture, di dare lavoro ai giovani per preparare il nuovo Paese, dopo l’invasione etiope, tutto è cambiato in peggio.
Afwerki ora è accusato di legare i ragazzi a un servizio militare indeterminato (in realtà dura diciotto mesi) chiedendo loro di lavorare nel servizio civile secondo le proprie capacità, per rimettere in piedi, dalle fondamenta, il Paese stremato da trent’anni di lotta e dal nuovo attacco.
Ma questi sono i ragazzi nati negli anni Novanta, i primi a non aver combattuto per il Paese, “connessi” all’Occidente, qualche volta in versione telenovela, che abbandonano un futuro difficile, faticoso, incerto.
L’estero li accoglie con lo status di “rifugiati”, in fuga dalla “dittatura” dando così una connotazione politica pesante a un reale disagio economico e sociale.
Non potrebbero tornare più in Eritrea ma se ciò accade, magari per le vacanze estive, nessuno li incarcera o mette visti di entrata e uscita, sono “rifugiati in incognito,” in visita ai parenti.
Anche il racket internazionale dei migranti ha il suo interesse nel business dei viaggi della speranza; raccoglie i giovani eritrei, li aiuta a raggiungere l’Egitto, Israele, il Sinai dove, qualche volta, diventano merce per i peggiori scambi, organi o soldi in cambio della vita.
Questa tragedia è stata denunciata dal governo eritreo che non ignora i pericoli del profondo malcontento giovanile. Ma la soluzione passa attraverso il rinnovo delle sanzioni?
Gli eritrei sono gente fiera, orgogliosa, forte, nazionalista, pronta a difendere la propria indipendenza. Solo chi non li conosce può pensare che si facciano estorcere denaro dall’interno, dalle proprie istituzioni.
Giuseppe Sorace, un italo eritreo residente in Italia, mi spiega che gli eritrei della diaspora conoscono i problemi del proprio paese, perciò, chi può, una volta all’anno, mette mano al portafoglio per contribuire con un 2 per cento di quanto guadagnato mensilmente.
Una “tassa” decisa subito dopo l’indipendenza e che ancora oggi gli eritrei, come dichiarato durante il Festival di Milano, lo scorso 7 luglio, sono orgogliosi di poter pagare, per sostenere chi nel proprio paese, amici, parenti, vicini di casa, è in difficoltà.
Ma non solo. Questi soldi, ben inferiori alle rimesse, aiutano lo stato a sostenere il costo della pubblica amministrazione che fornisce i documenti anche agli eritrei della diaspora.
Siccome tutto è trasparente, se un eritreo residente all’estero, ha bisogno di un certificato e ha la ricevuta del pagamento “2 per cento” non paga più nulla, altrimenti gli viene addebitato il costo del documento. Niente di più, nessuno è taglieggiato, mi spiegano.
Diverse sono le dichiarazioni di quelli che hanno invaso i territori eritrei, fornito pretesti per le sanzioni, cercato di fermare le rimesse, attaccato i contributi volontari, accusato di riarmarsi, offerto un dialogo a senso unico, due facce di una stessa medaglia, perché, a volte, somaticamente, eritrei ed etiopi sono identici, lontani però per spirito e ideali.
Marilena Dolce
@EritreaLive
Grazie Marilena,
della tua reale testimonianza, vorrei tanto far capire a tutto il mondo la vera Eritrea, il dignitoso Popolo e il Grade nostro Presidente…… spero che a breve avverrà questo.
Un abbraccio forte.
Nighisti – Brescia
Peccato che una dittatura militare, in quanto tale, non sia in linea a quanto dichiarate. Anzi nessuna dittatura che la storia ricordi è congrua alla vostra relazione.
Questo fa pensare…